IL SIGNORE DELLE MOSCHE, OVVERO LE VITTIME SACRIFICALI E LA RACCOLTA DELLE MORE (CON BREVE DIVAGAZIONE SULLE COMMEDIE ROMANTICHE IN CUI LE DONNE CAMBIANO)
Oggi ho compreso una cosa importante: non sono più fatta per
la campagna. Non sono più socialmente utile nella Cerasa bella. Da piccola ero
ben inserita, amavo gironzolare qua e là e imparare lavoretti utili. Avevo
una discreta resistenza e non facevo altro che camminare da un campo all’altro
e osservare. Ora sembra mi sia rimasta solo la capacità di osservare, e nulla
di più.
Ma andiamo al dunque.
“Vi sono due donne in mezzo ad un vecchio campo di grano,
ricoperto ormai solo di sterpi e di fieno. Mamma e figlia, la prima
cinquantenne, la seconda poco più che ventenne (ti piacerebbe!), stanno
percorrendo rapide la scorciatoia che le porterà ai margini della terra
lavorata. In quel lato, solo là, possono trovare ciò che cercano: una buona
dose di graffi, punture di zanzare e chili di more. “
Ok, la smetto! Come dice Mauro: “Tu scrivi, ma non
racconti”. Per oggi ci rinuncio.
Il fatto è che sono andata con mia madre a raccogliere le
more. Volevo aiutarla, perciò mi sono vestita così…
…e siamo andate per campi.
A metà strada ho un calo di zuccheri che quasi svengo. Ne
deriva che il resto del pomeriggio lo passo svaccata qui…
…sdraiata, mentre mia madre è intenta a perlustrare ogni
centimetro di rogo che porti frutto.
Mentre ammiro il panorama, che mi ricorda quanto Cerasa
somigli al mondo di Utopia senza bisogno di filtri (guardatelo Utopia, è una
figata),….
...penso.
...penso.
All’inizio ragiono sulla mia attuale condizione: non
abbastanza milanese, non più marchigiana al 100%. Avete presente quelle
commedie brillanti (alcune mica tanto) in cui la protagonista si trova, di
punto in bianco, ad affrontare un ambiente ostile e che, alla fine, riesce
nell’impresa grazie alla sua capacità di scindere ciò che è giusto da ciò che è
sbagliato? Ecco. Perché all’interno di tali romanticherie melodrammatiche c’è
sempre un punto di svolta: il momento chiave in cui la protagonista, ormai
pesce fuor d’acqua, non si sente a casa in nessun posto. E nei film, di genere,
le cose migliorano quando la giovane donna capisce che non è tanto importante
dove stare, quanto come ci si sta. E poi, senza troppi dubbi, sceglie la
metropoli oppure, come si suol dire il più delle volte, le si chiude una porta
e le si apre un portone. La meravigliosa sensazione di scegliere di essere se
stessi in un nuovo ecosistema e di svoltare! Non c’è niente da fare: Il diavolo
veste Praga docet.
Il mio punto di svolta è stato oggi. Non sono stata in grado
di sopportare un pomeriggio afoso alla raccolta di more, senza il timore di un
collasso, nonostante la mia sana e robusta costituzione (non totalmente vero): come posso vivermi
quel poco che offre il mio paesino? La sua routine, fatta di sagre paesane,
scampagnate, cene a casa e partite a tennis, non fa più per me. Non sono
neanche più capace di accontentarmi; quel poco che mi viene dato non mi basta
più. Senza considerare che non voglio più aver niente a che fare con quella
parola lì.
Quindi lì…
(proprio lì)
…ho sentito per la prima volta di non essere più una vera marchigiana.
Poi ho pensato ad altro.
Reduce dalla lettura di metà del Il signore delle mosche, per
un attimo mi sono sentita uno dei protagonisti. Spersa nella campagna
silenziosa, da sola, a riposare sudaticcia sopra la terra grulla, nonostante
l’acquazzone con annessa grandine del giorno prima, è bastato poco per
immaginarmi in un’isola deserta. La velocità con cui mi sono adattata al suolo
duro e scomodo mi ha piacevolmente sorpreso; forse non ero una survivor così
malvagia.
Mi sentivo uno di loro. Ma chi?
Jack. No, no e poi no. Ho passato la vita a sopportare i
bambini e gli adulti che presentano l’attitudine e il desiderio di primeggiare.
Ho subìto le loro angherie di continuo e ora non posso far altro che guardarli
dall’alto in basso con disprezzo.
La sua schiera di cacciatori neppure. Non mi sono mai
mischiata alla plebaglia e per questo ne ho prese di sberle e di sconfitte.
Piggy? No. Per quanto porti li occhiali e abbia una bella
parlantina (potere del fuoco e della conchiglia ai massimi livelli), non
esercito la mia superiorità nel campo della dialettica. Sono troppo timida per
mostrare la vera me, la politicante incapace di accettare la sconfitta e sempre
pronta a dire la sua (chi non ha visto tale parte di me, è fortunato, ve lo
garantisco). E poi posso anche sembrare poco interessante ma, in realtà, di
fascino ne ho da vendere, solo che è latente e viene slegato nei momenti
opportuni, quando me la sento.
Ralph certo che no! Mai stata abbastanza forte e in grado di catturare l’attenzione di tutti. Mi nascondo, lo faccio sempre. E mai stata così buona e responsabile, così dedita alla comunità. Da brava camaleonte mi mimetizzo; non cerco guai e non cerco mai di far valere le mie idee. Mi basta averle delle idee.
Insomma chi cazzo sono?
Mentre continuo a rimuginare, mi guardo attorno e mi accorgo
di essere in una piccola spianata con un fossetto al fianco, circondata da
coloratissime farfalle. Le fisso un secondo e poi esclamo:
“Sono Simone!”
Poi tornata a casa, finisco il libro e scopro che fine fa,
Simone (Shit!).
Tutto ciò comporta l’ennesima riflessione che si concentra
sul fatto che io rimanga una VITTIMA SACRIFICALE, nonostante abbia smesso di
vittimizzarmi da un po’. Infatti, proprio per quello che sono e per come
sopravvivo in ogni luogo, senza lasciarvi troppa Ilaria dentro, scivolando
rapida nel silenzio di una lettura in Piazza Duomo, vengo schiacciata senza
troppe difficoltà. Se mi do tutta il sistema mi distrugge. Perciò mi chiudo a
riccio, non do abbastanza; ne ottengo una salvezza apparente e di breve durata.
Nascondersi e non giocare con questo pazzo e folle mondo fa sì che le persone
non si prendano cura di me e che le loro attenzioni durino il tempo di un
caffè. Ai “Simone” non ci si affeziona.
Sono proprio così. Non dico la mia perché ho troppo timore,
troppa paura di non essere compresa o, peggio, di essere fraintesa. Non riesco
a parlare con chiarezza. La mia (e la sua) perspicacia non oltrepassa
(oltrepassano) la mia (e la sua) mente, i pensieri rimangono lì e, con loro, la
possibilità di mostrare l’intelligenza e la sensibilità che mi connota.
“Pare un po’ tocco”, loro dicono. Rimarrà l’unico in grado di capire le cose per come sono e a non sottovalutare la portata dei guai che attendono il gruppo di
bambini.
Ma è lui che muore.
Perciò, dopo aver letto per la prima volta il capolavoro di
Golding, anziché soffermarmi sulla morte dell’innocenza, sulla crudeltà
dell’animo umano e sulla bestialità di noi tutti, io mi chiedo:
“Sarei morta?”
E so che la risposta è sì.
Io rimarrei nella domanda senza risposte.. chi sono?
RispondiElimina:-)
Difficile a dirsi ;) Forse solo una buffa marchigiana a Milano!
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